giovedì 22 gennaio 2009

RWANDA: SEEDS OF HOPE

Questo contributo arriva dal mio amico Andrea Frazzetta, fotoreporter specializzato in tematiche legate al continente africano

“A che serve cercare delle attenuanti a persone
che ogni giorno hanno tagliato con il macete, anche di domenica?
Cosa si può attenuare? Il numero delle vittime?
Il modo di tagliare? Il disprezzo dei carnefici?
Rendere giustizia equivarrebbe ad ucciderli.
Ciò provocherebbe un altro genocidio, il che significa il caos.
Ucciderli quindi o punirli in modo appropriato? E’ impossibile.
Perdonarli? Impensabile. Essere giusto è disumano”.

“La giustizia non ha spazio dopo un genocidio,
per il semplice motivo che supera l’intelligenza umana.
Bisogna dare la priorità ai terreni, ai raccolti, al paese,
e quindi anche ai carnefici e alle loro famiglie che fanno la forza e il numero.
Quale sarebbe il destino di un paese in stato di abbandono, senza scuole e senza case?
Non si tratta di giustizia umana, ma di una politica di giustizia”.

Berthe Mwanankabandi
Sopravvissuta del genocidio rwandese

"Non importa che in ambito privato vi identifichiate come hutu o tutsi.
L’importante è che cosa intendete fare da rwandesi per il Rwanda.
Ognuno di voi può dare un contributo decisivo al suo paese".

Paul Kagame
Presidente del Rwanda


Il Rwanda all’alba del XXI secolo

6 aprile 1994. L’aereo del presidente del Rwanda, Juvenal Habyarimana, viene abbattuto. In poche ore la capitale Kigali è chiusa da posti di blocco dell’esercito delle milizie Hutu. Iniziano lo sterminio della comunità Tutsi e il massacro degli Hutu “moderati” contrari al progetto genocidiario. Durerà tre mesi. Verranno uccise da 800.000 a un 1.000.000 di persone. In meno di 100 giorni col machete, con le mazze, a colpi di fucile, di mitragliatrice, di granate, annegati o bruciati vivi, uomini, donne, bambini, anziani, saranno sterminati in città, sulle colline, nei tempi e nelle chiese. Il terzo genocidio ufficialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale nel XX secolo, si è svolto sotto gli occhi del mondo intero. Durante tre mesi, le principali potenze occidentali (Stati Uniti e Francia tra tutte), le Nazioni Unite assistono impassibili alla più grande carneficina della storia africana.

Circa quindici anni dopo, africanisti ed esperti di Relazioni internazionali sono unanimi: “in Africa c’è un prima e un dopo Rwanda”. Dal Darfur al Kenya, dalla Costa d’Avorio al Burundi, i conflitti etnici che in questi ultimi anni hanno insanguinato il continente africano riportano la nostra coscienza collettiva alla tragedia rwandese del 1994. “No a un altro genocidio” è la parola d’ordine con cui la società civile interpella la Comunità internazionale per porla di fronte alle sue responsabilità.

In Rwanda intanto, l’opera di ricostruzione di un paese devastato dall’odio etnico e dalla povertà va avanti su ritmi forzati. Chi oggi si avventura a Kigali non può non rimanere colpito dai cambiamenti urbanistici sbalorditivi che ormai caratterizzano il boom economico della capitale rwandese. Da piccola città provinciale, Kigali si è trasformata in pochi anni in un vero proprio centro urbano moderno dotato di viali asfaltati, strade pulitissime, palazzi di vetro e acciaio, banche, uffici commerciali, università di fama continentale, quartieri residenziali in stile americano, etc. Protagonisti assoluti di questo miracolo sono i membri della diaspora rwandese e le autorità capeggiate dal Presidente Paul Kagame, giunti dall’Europa, Stati Uniti, Canada, Asia e Africa all’indomani dell’eccidio per far rinascere il Rwanda dalle proprie ceneri. Dopo aver raggiunto un livello di sicurezza tra i più alti del continente africano, oggi le autorità rwandesi sono concentrate su due obiettivi: sconfiggere la povertà rurale e proseguire il lungo processo di riconciliazione tra hutu e tutsi.

Non appena ci si addentra tra le colline rwandesi (dove risiedono oltre l’80% della popolazione, ndr), si intuisce che questa duplice sfida si annuncia molto ardua. Nel 2007, oltre il 60% dei rwandesi continua a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Nei villaggi poi, la diffidenza tra le due etnie rimane fortissima. A differenza dello sterminio armeno o della Shoah, il genocidio rwandese è il primo nella Storia in cui vittime e carnefici sono costretti a coabitare insieme dopo i massacri. Entrambi devono poi fare i conti con le conseguenze di una crescita demografica galoppante che restringe sempre di più gli spazi di coltivazione, mettendone così a rischio il futuro dei giovani (quelli con età inferiore ai 14 anni rappresentano il 41% della popolazione). Questo fa sì che il Rwanda del XXI secolo rischia di ritrovarsi confrontato alle stesse minacce che hanno finito per distruggerlo nel 1994. Tra le cause del genocidio, i media occidentali hanno sempre evidenziato l’odio etnico che gli europei veicolarono tra la popolazione rwandese durante il periodo coloniale. Se è vero che il genocidio ha origini culturali, questa tesi non basta a giustificare il livello di violenza raggiunto nella primavera del ’94. A spingere così tanti hutu a massacrare i propri vicini fu la crisi alimentare che devastò il Rwanda alla fine degli anni ’80. Costretti ad abbandonare i loro fazzoletti di terra per le città, un numero impressionante di giovani disoccupati finirono arruolati nelle milizie interhamawe dai militari estremisti hutu per perseguitare i tutsi e sterminarli. Il risultato: un milione di morti. Nonostante i ritmi di crescita economica impressionanti degli ultimi anni (una media del 6% annua), una diversificazione crescente degli investimenti produttivi (più spazio ai servizi), la scommessa su prodotti agricoli di eccellenza come il tè e il caffé (vedi le partnership siglate con Starbucks) oppure l’apparizione di nuovi donatori internazionali (Cina, India, Dubai), il Rwanda rimane un paese fragile, economicamente legato alla sua produzione agricola e fortemente esposto ai rischi di siccità e crisi alimentare.

di Andrea Frazzetta

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